ECUADOR, Ho fatto pace con Quito
Quito per me è sempre stata paragonabile a una persona che a prima vista mi sta proprio sul cazzo. Qualcuno che fa proprio di tutto per apparire antipatico, come se in qualche modo volesse mettere alla prova chi ci si trova di fronte per vedere fino a che punto resisterà.
Beh, il mio fisico non resistette molto prima di andare in tilt, anzi, stava cedendo miseramente già sulla strada che da Esmeraldas mi ci stava portando per la prima volta il primo agosto di un anno e mezzo fa.
A metà cammino febbre alta, vomito e pressione bassa erano i sintomi dominanti, ovviamente ignorati da chi come me a 3000 metri slm non c'era mai stato e aveva sempre vissuto tra mare e pianura.
Arrivato nella capitale ecuadoriana per la prima volta la situazione degenerò invece di migliorare, costringendomi in ospedale con mezza faccia paralizzata. Uscito dall'ospedale quiteño le prime due settimane per me furono paragonabili a quelle di un 90enne sul punto di passare a miglior vita: stanchezza diffusa, al punto che parlare, mangiare e camminare per più di cinque minuti mi facevano sentire come dopo una corsa di 5000 metri a ostacoli (in questo periodo sono in vena di aneddoti praticamente raccontati a pochissimi eletti, vedi capitolo precedente).
Ristabilitomi dal mal d'altura mi promisi che non sarei più tornato da queste parti e soprattutto che non sarei più tornato ad alture così elevate. Fanculo a chi mi diceva di fare trekking sul Cotopaxi e cose del genere.
Ovviamente un anno e mezzo dopo posso annoverare tra le mie avventure una scalata fino a 4500metri per arrivare a un lago di montagna peruviano, una visita al Cajas più o meno a quell'altezza, un passaggio a 5000metri sulla rotta che portava a Machu Picchu e una visita al Monserrate di Bogotà.
Mancava ovviamente Quito, quella città che lasciare la prima volta fu una liberazione e che successivamente fu solo meta di passaggio per andare e venire dalla Colombia.
Fino alla settimana scorsa, quando per un pretesto mi sono trovato costretto a fermarmi una settimana nella capitale. Ovviamente ci sono rimasto quasi due settimane, contrariato assolutamente all'idea di andarmene, promettendomi che sarei tornato prestissimo e facendo visita all'altissimo Teleferiqo.
Cos'è cambiato di così clamoroso, a parte il fatto che il mio organismo come è normale che sia si è abituato alle altitudini montane?
L'aspettativa, o meglio la mancanza di essa.
Sono tornato a Quito senza aspettarmi assolutamente nulla, come non mi sarei aspettato niente da una persona che appena conosciuta non mi andava giù. Beh, questa è stata la classica situazione nella quale con quella persona mi sono trovato bloccato in ascensore e parlandole mi sono reso conto che di lei non avevo capito nulla la prima volta.
Le persone conosciute in queste due settimane e aver ritrovato alcuni amici che da anni vivono nella capitale hanno fatto il resto, togliendo una maschera a prima vista spaventosa a qualcuno che al di sotto di essa può mostrare invece tutta la sua disponibilità.
D'altronde tutti indossiamo maschere quando oltrepassiamo l'uscio di casa nostra: mettiamo la maschera più all'ultima moda, la più sfacciata, la più timida, la più aggressiva, la più bonaria a seconda delle situazioni nelle quali ci veniamo a trovare, dando a volte per scontato che in molti non andranno oltre quella maschera, perché dà di noi un'immagine fuorviante e che c'entra poco con la faccia che c'è al di sotto di essa.
Vale per le persone, perché non può valere anche per i luoghi, che alla fine sono fatti da persone?
Beh, il mio fisico non resistette molto prima di andare in tilt, anzi, stava cedendo miseramente già sulla strada che da Esmeraldas mi ci stava portando per la prima volta il primo agosto di un anno e mezzo fa.
A metà cammino febbre alta, vomito e pressione bassa erano i sintomi dominanti, ovviamente ignorati da chi come me a 3000 metri slm non c'era mai stato e aveva sempre vissuto tra mare e pianura.
Arrivato nella capitale ecuadoriana per la prima volta la situazione degenerò invece di migliorare, costringendomi in ospedale con mezza faccia paralizzata. Uscito dall'ospedale quiteño le prime due settimane per me furono paragonabili a quelle di un 90enne sul punto di passare a miglior vita: stanchezza diffusa, al punto che parlare, mangiare e camminare per più di cinque minuti mi facevano sentire come dopo una corsa di 5000 metri a ostacoli (in questo periodo sono in vena di aneddoti praticamente raccontati a pochissimi eletti, vedi capitolo precedente).
Ristabilitomi dal mal d'altura mi promisi che non sarei più tornato da queste parti e soprattutto che non sarei più tornato ad alture così elevate. Fanculo a chi mi diceva di fare trekking sul Cotopaxi e cose del genere.
Ovviamente un anno e mezzo dopo posso annoverare tra le mie avventure una scalata fino a 4500metri per arrivare a un lago di montagna peruviano, una visita al Cajas più o meno a quell'altezza, un passaggio a 5000metri sulla rotta che portava a Machu Picchu e una visita al Monserrate di Bogotà.
Mancava ovviamente Quito, quella città che lasciare la prima volta fu una liberazione e che successivamente fu solo meta di passaggio per andare e venire dalla Colombia.
Fino alla settimana scorsa, quando per un pretesto mi sono trovato costretto a fermarmi una settimana nella capitale. Ovviamente ci sono rimasto quasi due settimane, contrariato assolutamente all'idea di andarmene, promettendomi che sarei tornato prestissimo e facendo visita all'altissimo Teleferiqo.
Cos'è cambiato di così clamoroso, a parte il fatto che il mio organismo come è normale che sia si è abituato alle altitudini montane?
L'aspettativa, o meglio la mancanza di essa.
Sono tornato a Quito senza aspettarmi assolutamente nulla, come non mi sarei aspettato niente da una persona che appena conosciuta non mi andava giù. Beh, questa è stata la classica situazione nella quale con quella persona mi sono trovato bloccato in ascensore e parlandole mi sono reso conto che di lei non avevo capito nulla la prima volta.
Le persone conosciute in queste due settimane e aver ritrovato alcuni amici che da anni vivono nella capitale hanno fatto il resto, togliendo una maschera a prima vista spaventosa a qualcuno che al di sotto di essa può mostrare invece tutta la sua disponibilità.
D'altronde tutti indossiamo maschere quando oltrepassiamo l'uscio di casa nostra: mettiamo la maschera più all'ultima moda, la più sfacciata, la più timida, la più aggressiva, la più bonaria a seconda delle situazioni nelle quali ci veniamo a trovare, dando a volte per scontato che in molti non andranno oltre quella maschera, perché dà di noi un'immagine fuorviante e che c'entra poco con la faccia che c'è al di sotto di essa.
Vale per le persone, perché non può valere anche per i luoghi, che alla fine sono fatti da persone?
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