21/11/21 - Esce l'audiobook di ITALIA con la splendida interpretazione di Stefania Patruno

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IN COLOMBIA! Il ventre della terra (by Angela Bernardi)

Per la prima volta da un anno e mezzo, lascio volentieri questo spazio a qualcun altro. Una giovane insegnante italiana residente a Bogotà che ha raccontato la Colombia e la sua capitale in uno scritto dal quale trasuda l'energia della sua esperienza da questa parte del mondo.


È stata la classica volta nella quale si legge qualcosa e se ne rimane incantati.
 Angela mi ha tolto le parole dalla penna. Sono parole bellissime, cariche di vita e di amore per questa terra. Eccole.

IL VENTRE DELLA TERRA 


La Colombia non chiede il permesso.
Ti si getta fra le braccia, con il suo maravilloso e il suo feo.

All'inizio sembrerà così diretta da ferirti: c'è poco da strabuzzare gli occhi, da aggrottare sopracciglia, storcere bocche e nasi. Ricorda, sei stato avvisato! La Colombia non chiede se sei d'accordo: mai. Ne quando accarezza, ne quando schiaffeggia.
Carezze e schiaffi a succedersi:
La prima orma posata sul verde in Colombia, non la dimenticherò mai. 
Sento il mio piede affondare solo come uno stivale nella neve, senza opporre resistenza, morbidamente. 
A percorrermi un’inaspettata sensazione materna di accoglienza (la rielaborerò molto, molto più tardi, come molte altre cose sentite e non pensate).
Sto posando il primo passo a Bogotà; una terra così non l'ho mai sentita.
Sono all'interno del ventre della terra.

 Subito dopo, arriva qualche capogiro ad accogliermi, per ammonirmi che qui si è più vicini al cielo: a 2600 metri.
(Più tardi, quando i capogiri saranno passati, sarà la volta celeste a ricordarmelo, ogni notte: stelle enormi, occhi biblici a scrutare dall'alto l'intrico della città ai suoi piedi. 
Se solo alzo la mano le posso agguantare).
 
  
E ora emergo dal tappeto erboso, scendo nelle strade. 
Bogotà chiede di inciampare nelle sue buche immense come bocche spalancate nell'asfalto, chiede di camminare lontano dai suoi muri - sempre all'erta, sempre in guardia, sempre pronto alla via di fuga - di discernere i sacchi di spazzatura dalle persone nere di piombo e catrame.
  Chiede: “ascolta la forza oscura che di notte esalano le mie calles”.

  Nel ventre, calles e carreras si incrociano regolari. Un reticolo quasi perfetto. Un tentativo imperfetto d'ordine.

"Non rilassarti" sembra dirmi "non te lo puoi permettere. Per stare più tranquillo, al principio, pensa che cento passi misurano una via. Cento passi, dieci buche, due chioschi, venti sacchi".
  Per strada nasce e muore la giornata nelle sue azioni più necessarie. 
La strada non è solo passaggio ma anche albergo. 
Ci si mangia, ci si cucina, ci si contratta, ci si dorme. 

  È quella stessa strada che - sempre che lo stomaco lo permetta - può soddisfare ogni voracità. Mi guardo in giro:  tutti quei carretti e gli ombrelloni colorati nascondono la frutta più primordiale e colorata che si puo' immaginare.
 C'è un vecchino che ha posato il suo carretto nel crocicchio, sulla 12esima. Vende mango de azucar, disposti a piramide perfetta. 
Me ne accorgo non tanto per la geometrica disposizione, quanto per il profumo. Stando attenta a non farmi travolgere dai taxi impazziti, ci passo accanto. 
Capiterà che lo veda levare una lama mezzo arrugginita dal carretto e rompere la geometria piramidale afferrando un mango per affettarlo alla buona, porgendomelo con un gesto del tutto naturale.

 Poco più in là c’è un venditore ben più organizzato.
 Trascina un carretto di piñas; alla sua sinistra un giovane, forse il figlio, che porta alla mano un microfono e urla la sua merce senza troppi misteri.
Quell’altro ombrello colorato cerca di rubare la piazza e nasconde litri di succo fresco di guanabana.
Dieci passi più in là, la signora trita canne da zucchero, servendo il succo con rapidità e prontezza. Ancora più oltre, una nube di vapore nasconde un uomo alle prese con una griglia improvvisata.
  E poi, giù, giù.
  La notte è sinistra in certi luoghi, nel ventre.
 I neon squarciano un nero che scende, tutti i giorni, alle sei della sera. I rumori si acquietano, si levano le ombre; l'oscuro nasconde più di quel che la luce elettrica mostra. 
La strada mi risucchia e porta i miei occhi a sfidare il buio, perché so che quel nero nasconde l'umanità più profonda di quella che ho sempre conosciuto.
  
   C'è un ombra che la poca luce del marciapiede allunga; l'ombra si trascina dietro una figura, china, sotto il peso di un grande sacco.
Trasporta ciò che la città non vuole: lattine vuote, buste del latte, polistirolo, imballaggi. Ciò che il ventre consuma, l'uomo della calle riutilizza: è il riciclatore umano.
  Col tempo si impara a portare rispetto per la strada e le sue forme, non solo ad averne timore. La strada è una divisa, in Colombia. È appartenervi. Questo perché il senso di appartenenza è forte, a qualunque grado sociale ci si possa trovare.

Così si impara a posare uno sguardo benevolo sulla strada. Una donna è stesa sull'aiuola spartitraffico: un urlo di Munch metropolitano. Perché si tiene il volto con le mani? 
La calle 13esima alle 9 cala un nero più fondo della pece: rumore di stracci portati rasente al suolo - cani sguinzagliati stanchi e pigri – gente pesante di randagismi e di fame – uomini che dondolano e parlano a se stessi – carrelli e carretti spinti o trascinati.

  L’occhio s’impressiona come carta fotosensibile e mi porto a casa fagotti di immagini che sono carichi da smaltire per la mente; durante le serate al sicuro e al caldo della mia abitazione, penso al prisma complesso che è l’umanità, ai costi della nostra società del consumo, e a quelli che la Colombia sta avendo per il suo sviluppo economico. 

  Nella testa mi salutano le immagini dei volti scavati di sole e di rughe che ho incontrato viaggiando; gli occhi e i capelli neri profondi brillano e penso alla storia colombiana fatta di terra fertile, selvaggia e poco addomesticabile. Se anche l’uomo potesse non farsi addomesticare, e radicarsi alla terra come le piante, sfuggire alla città rapido come fa il colibrì.
 Penso al costo della riduzione delle terre coltivate, ai desplazados, gli espropriati dalla guerriglia, che si rifugiano in città e vi cercano un angolo di terra che possa lontanamente ricordare loro la naturaleza nella quale vivevano.

  La complessità e la voracità di Bogotà non mi permette il riposo. L’occhio corre sempre veloce e ha sete di vedere e conoscere. La lezione che si porta a casa è, quasi ogni giorno, una lezione di relatività culturale e esistenziale.
  Qui saltano i confronti e i paragoni – se ancora mi saltano in mente - mi fanno arrossire. 
Non c’è possibilità di confronto e, proprio come su un altro mondo, i criteri estetici, le convenzioni sociali e relazionali, le condizioni economiche e di vita sono altre.
Devo smetterla di pensare all’America Latina con testa europea. Devo scendere dalle Alpi e salire sulla Cordigliera, sporcarmi le mani, guardare con gli occhi e non con la testa.

  Così, poco per volta, quando l’occhio non è più abbagliato dall’impatto iniziale e la vista si dipana, imparo a cogliere le sfumature, e ad amarle. 
Esiste il barrio residenziale e il barrio degradato, ma quasi tutti i barrios sono simili a matrioske che celano al loro interno altri barrios. Le pronunce colombiane, quella della costa, quella della città, quella degli altri departamentos, il temperamento dei costeños, i paisas, la gente di Medellin, i rolos, quelli di Bogotà
Si impara l’orgoglio e l’attaccamento all’identità di ogni regione e mi preparo perché quando se ne attraversa una si può vedere sfilare davanti ai propri occhi paesaggi incredibilmente differenti.
Imparo il sapore del mango, della papaya e di altri frutti dalle forme primordiali: pitaya, guava, lulo, feijoa, tomate de arbol.
 Penso: "Quante soprese ha ancora in serbo per me la natura? Quanti effetti speciali?"
   
Ricordo e tengo stretti alla rinfusa:

 Una sera, aspettando di imbarcarmi per l’arcipelago di S.Bernardo. 
Camminando per calles sonnolente di Tolù, sorpassando case e cigarrerias che tengono aperte le porte a suon di salsa, si arriva a una di queste, piena di bambini che ridono, si chiamano fra loro, guardano in alto. 
Alzo la testa e appeso al filo dell’elettricità c’è un bradipo penzoloni.

  E quell’imbrunire, nel deserto della Tatacoa? Il silenzio che, tanto è assoluto, si fa rumore; le stelle sono un tetto che sembra coprire il cielo come fosse un lenzuolo.

  Il pomeriggio in cui, sull’isola di Mucura, il viejito del pueblo si era addormentato di un sonno di digiuno, all’interno della sua barchetta da pesca, fuori dalla porta di casa.

  La notte in cui apro gli occhi, addormentata sull’amaca: quella luna rosicchiata da un’eclissi; le palme che ne accarezzano l’ora tarda.

   Un mezzogiorno di ritorno, nella piazza del paese, nel Sucre, dopo giorni senza telefono e senza giornali: vedere il volto di Gabo che sorride al pueblo dai quotidiani e due date sottostanti; la meraviglia e la commozione di saperne la scomparsa, trovandosi nella sua regione di origine.

   Nel mezzo della piazza del pueblito, nella regione di Huila, c’è un albero mastodontico: 
quasi certamente ha dieci volte i miei anni. Ha braccia e gambe, radici enormi e rami e da quest'ultimi pendono altre radici che si conficcano al suolo.
  È la metafora che cercavo per questa terra: forza, radicamento, imponenza, magnificenza, umiltà.

Il ventre della terra…

Angela Bernardi 

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