La responsabilità di chi racconta e di chi legge
Dalla
finestra del mio appartamento di Bogotà si scorge in lontananza la Torre Colpatria,
che domina con le sue luci riflesse la skyline della città venuta su negli anni
senza una logica, disordinata e confusa come la metropoli che pulsa ai piedi
della torre stessa. Guardando in lontananza i palazzi del centro che svettano
rischio però di perdermi quello che succede davanti agli occhi, nella strada
sulla quale si affaccia la mia finestra riparata dalle sbarre come un carcere.
Un
operatore ecologico armato di rastrello fa il suo sporco lavoro per ripulire la
via dalle foglie morte che ricoprono il marciapiedi, quando gli si avvicina un senzatetto e dopo qualche minuto i due
si mandano allegramente a quel paese.
Il barbone si allontana, non senza aver
minacciato lo spazzino per motivi che, complice la finestra chiusa, ignorerò
per sempre. Mi immagino una scena nella quale il senzatetto ritorna armato di
bastone accompagnato da un manipolo di disperati per far pagare il torto subito al
suo interlocutore: in questo caso sarei testimone oculare di un’aggressione,
che data la strada deserta e l’omertà degli abitanti del circondario potrebbe
diventare un omicidio. Sono solo aberrazioni della mia mente che fantastica con
l’immaginazione, a volte più del dovuto.
Eppure è
così che nasce una notizia, qualcosa per cui parlare, qualcosa che nel giro di
poco può diventare virale: una persona racconta un fatto, un fatto che per
interessare un individuo comune deve avere qualcosa di straordinario, o
contenere al suo interno del sangue. Siamo così del resto: vogliamo pilatescamente vivere di cose calme
e tranquille ma ci interessa qualcosa che fa a pugni con la normalità, come un
omicidio, un’aggressione.
A chi interessa leggere sul giornale la mattina il normale svolgersi della routine di un impiegato in banca per esempio?
La notizia deve scuotere la normalità di qualcuno come un fulmine a ciel sereno, forse per ricordargli che è ancora vivo.
Qui entra in scena il ruolo del giornalista, che in teoria dovrebbe essere colui che racconta un fatto. Qualcosa succede, qualcuno la racconta e se è interessante per le persone diventa virale.
Il punto è che sono le persone stesse a decidere l'importanza di una notizia e spesso chi lo fa è lo stesso individuo che protesta per le notizie che trova in prima pagina, non sapendo di generarle lui stesso con il suo interesse.
Non c'è benzina migliore per alimentare il sistema di quella che dice di combatterlo e di farlo saltare in aria e non c'è utente più prono al sistema di quello che inveisce contro un blog o un sito di qualche celebrità del giornalismo e dello sport, pensando di smuovere anche solo una pagliuzza e invece non facendo altro che generare ancora più traffico virale per la pagina stessa e quindi più celebrità per il personaggio che ha appena finito di insultare.
In questo, le nuove regole di Facebook sui feed sono illuminanti e inquietanti alla stessa maniera, ma danno un'idea precisa di questo concetto: una notizia diventa virale se riceve più likes possibili, altrimenti si può anche scrivere di aver trovato il vero assassino di Kennedy, che se non risulta interessante ai più finisce nel dimenticatoio in un nano secondo.
In questo senso viene da pensare a quale sia la colpa del giornalista, che secondo le persone cerca la notizia anche dove non c'è, che scrive di gossip invece che di occuparsi di qualcosa di più serio, che sa tutto di Balotelli e di James Rodriguez e niente di quello che succede nel Corno d'Africa. Perché? Per negligenza nel suo lavoro o perché quello per cui si interessano le persone conta più di tutto?
Io voglio andare volutamente controcorrente, proprio perché lo sport più popolare dopo il calcio in periodo di Mondiali è proprio quello di dare sempre la colpa a qualcun altro riguardo a qualcosa che non va.
Il giornalista è paragonabile al tassista che accompagna un individuo dall'aeroporto al centro città, testimone e allo stesso tempo succube di quello che succede nel tragitto.
Se il passeggero dà di matto, sfila una pistola e inizia a sparare all'impazzata, il tassista non ha nessuna responsabilità indiretta riguardo al fatto che questa cosa sta succedendo nel suo taxi e non in quello di un altro. Certo, può ribellarsi preventivamente e non farlo salire, ma non ha quasi nessun ascendente su quello che lo circonda: si limita a essere tramite, esattamente come dovrebbe essere un giornalista. Un testimone dei fatti, che possono essere raccontati come si vuole ma rimangono sempre fatti oggettivi.
L'utente pretende che qualcuno, oltre a raccontargli il mondo, gli apra anche gli occhi e abbia quel ruolo pedagogico che ancora si pretende dai mass media.
È
lui che vuole quell'informazione, è lui che clicca sulle action words
scritte apposta per far incuriosire qualcuno e che sono come
delle pistole caricate a salve. Devono solo fare il botto, poi dentro
non hanno niente. E in questo caso di chi è la colpa? Del giornalista che scrive un titolo sensazionalista o di chi lo clicca?

È lo stesso che si lamenta di Balotelli, quando sotto sotto inveisce contro di lui perché non fa altro che guardarsi allo specchio e trovarci le stesse sue caratteristiche. Se la massima espressione dell'attaccante italiano è quella, forse è perché è lui che incarna meglio l'italiano medio: autoreferenziale, spocchioso, vittimista (Why always me? sulla maglietta è emblematico), presuntuoso al punto da dire "non conosco i miei avversari" come a dire che l'Italia è il centro del mondo, quando uscendo dal reticolo politico che disegnano le mappe non si fa altro che notare quanto piccolo sia diventato il nostro martoriato Stivale. Ovviamente ci sarà una schiera di persone che non si rivede in questa descrizione, ma sotto sotto la maggior parte di loro non si rivede in quanto non fa abbastanza autocritica.
Se
un utente vuole che il calciatore della nazionale che ha fallito la sua
missione cada nel dimenticatoio della stampa, forse dovrebbe per primo
lui smettere di nominarlo nei suoi post, smettere di scrivergli lettere
aperte che mostrano solo come chi le scriva si senta migliore di lui
solo perché non ha quello che ha lui, e in realtà celano solo una voglia
di rendere qualcosa virale, sfruttando proprio il nome della persona
che si insulta sperando che un hashtag faccia il suo dovere.
Insultare
un calciatore, un politico o qualcuno che abbia un seguito maggiore di
una cerchia di amici su Facebook diventa
così poco più che il prodotto della stessa frustazione, una latente
invidia per un pirla al quale non si farebbero neppure fare le pulizie a
casa, che invece domina le giornate e le discussioni delle persone con
le sue
dichiarazioni e che probabilmente ride dietro lo schermo di quelli che
gli dicono che dovrebbe cambiare mestiere, che invece indirettamente
sono gli stessi che con la loro lamentela continuano a sfamarlo.

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