IN COLOMBIA! Il divano con le ruote - p.1
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Mi
sono ritrovato a vivere IN COLOMBIA! con Juliana e David perché… un ristorante
giapponese di Franklin Street a Los Angeles aveva il servizio ai tavoli
talmente lento che io e il mio collega giornalista dell’epoca avevamo impiegato
un’ora per mangiare un sashimi. Il tempo sufficiente per far si che dalle parti
del patio del locale passasse un tipo alto, magro e dall’aspetto emaciato che
si fermò a fare due chiacchiere con il mio collega che aveva conosciuto qualche
mese prima.
Noi
stavamo pianificando una notte selvaggia tra i tavoli da gioco di Las Vegas e
l’adrenalina di poter essere nella città delle luci la sera stessa era talmente
alta da far passare in secondo piano questo anonimo individuo al quale, in quel
momento, avrei potuto dare la stessa importanza che può avere qualcuno che ci
precede nella fila al supermercato.
Lo
rincontrai. Qualche settimana dopo la mia personale esperienza di Las Vegas. Se
ne stava al bancone di un pub francese della stessa Franklin Street concentrato
sulla sua pinta di birra. Io avevo appena finito il mio turno nella
redazione/appartamento/tugurio dell’agenzia di stampa per la quale lavoravo a
Hollywood.
Quel giorno non avevo molta voglia di fare
finta di star bene al solito tavolo di americani misti a italiani, che
sbraitavano in inglese quanto bastava a farli riconoscere a tutti gli
avventori del pub. Ordinai due birre e mi diressi al bancone verso il giovane che, dopo anni vissuti a
Boston per laurearsi, aveva attraversato gli Stati Uniti per cercare di lavorare
componendo colonne sonore per corto e lungometraggi.
Iniziammo
a parlare come due vecchi amici che non si vedevano da tempo, con la stessa
intensità nel raccontarci le cose tipica di chi incontra qualcuno dopo tanti
anni e pensa che basti una mezz’ora per potergli spiegare in maniera sommaria
la storia della propria vita, finendo inevitabilmente per
aspettare il proprio turno per parlare invece di ascoltare.
Io
non sapevo nulla però di lui e, a dire il vero, non avevo troppa voglia di
sorbirmi le mirabolanti imprese di qualcuno che era arrivato nello stesso posto
dov’ero io in quel momento.
Tra
tutte le informazioni che mi arrivavano dalla sua bocca, come se fosse stata la
sorgente prolifica di un fiume di montagna, avevo ignorato praticamente tutto,
un po’ per stanchezza, un po’ perché anch’io sentivo l’impellenza di mettere sul tavolo una scorta di dati, che tenevo in serbo per qualcuno che parlasse la mia lingua, con la stessa presunzione di chi mette sul tavolo da poker il punto più alto e sa che nessuno potrà controribattere.
Raccontare
il riassunto della mia vita in inglese a quei tempi era qualcosa di complicato
e gli pseudo amici americani del tavolo, al quale avevo rifiutato volutamente di
sedermi quella sera, mi immaginavano come una persona di poche parole.
Avrebbero
scoperto quanto si sbagliavano quando presi padronanza della lingua e quanto
non parlavo più che altro perché non capivo quello che dicevano e non sapevo
cosa rispondere. I primi tempi che mi univo alla loro comitiva, dopo il mio turno lavorativo, annuivo infatti alle parole che volavano da una parte
all’altra del tavolo, cercando mentalmente di comporre i frammenti dei discorsi
con quel poco che riuscivo a tradurre istantaneamente dall’italiano e inseguendo
il filo del discorso per non apparire come un completo idiota.
Tornando
allo spilungone dai tratti emaciati e dallo sguardo malinconico, una cosa mi
colpì di quello che mi stava raccontando, in mezzo alla confusione di tutte le
informazioni che avevamo messo sul piatto.
Mi
parlò di una festa organizzata da una community via internet alla quale aveva
partecipato la sera prima e che a suo modo di vedere mi sarebbe piaciuta se
avessi potuto parteciparvi.
Era
una festa che si ripeteva con cadenza settimanale ideata dal sito di
Couchsurfing.
Dove
avevo sentito quella parola?
Da
nessuna parte, dato che l’avevo vista scritta su un ritaglio di un articolo di
giornale che stava fissato sulla porta del frigorifero dell’appartamento,
situato nella zona Bicocca di Milano, che condividevo già da più di un anno con
altri quattro ragazzi.
Il
subconscio mi aveva scodellato quella parola, contenuta in un ricordo al quale
avevo avuto accesso, perché era qualcosa di importante?
Avevo
visto e rivisto quell’articolo praticamente ogni volta che aprivo il
frigorifero senza che cambiasse nulla.

Mi immaginavo un sofà mobile guidato in maniera fantomatica da alcuni viaggiatori e che si posizionava nelle stanze di perfetti sconosciuti in base alla disponibilità e all’ampiezza di coloro che ospitavano.
Alla
fine non ci ero andato così lontano dal punto di vista concettuale.
Lo
spilungone dallo sguardo malinconico e dai tratti emaciati non sembrava però il
classico esempio di hippie con uno zaino da globetrotter in mano. Quando
diventammo un po’ più intimi mi resi conto che la sua visione del mondo faceva
parecchio a pugni con l’idea di fare affidamento sugli altri.
Forse
era finito a quella festa per caso.
A Los Angeles la noia avvolge qualcuno più che in ogni altro posto al
mondo quando bisogna ancora integrarsi e forse l'ansia di sentirsi bene solo quando circondato dagli altri, circostanza con la quale personalmente mi sono scontrato spesso da quelle parti, l’aveva spinto a trovare la prima cosa
che gli passava sotto mano per poter passare una serata in mezzo a un po’ di
gente.
A
prescindere dal perché avesse partecipato a quella festa, non l’avrei
ringraziato mai abbastanza per averlo fatto.
Quella
parolina magica mi aprì un mondo, ribaltando completamente il mio punto di
vista sospettoso e complottista che avevo avuto nei confronti del prossimo fino
a quel momento. Si parlava di ospitare un estraneo senza chiedergli nulla in
cambio e senza la certezza che questa persona avrebbe in un ipotetico futuro
ricambiato il favore.
Non
posso dire che ai tempi sposassi completamente questo tipo di mentalità, anche
se alcune persone che adesso sono fondamentali per la mia esistenza le avevo conosciute perché una sera mi addormentai in posizione discutibile sul
loro divano polveroso. Lo stesso divano nel quale mi addormentavo
frequentemente in posizioni sempre più improbabili dal momento in cui con queste
persone ci andai a vivere, nella stessa casa nella quale avevo davanti
agli occhi esattamente un messaggio subliminale di come sarebbe andata la mia vita e che ignoravo
completamente, dato che quel messaggio era su una porta che mi serviva solo per
prendere i latticini in frigorifero.
Ero
già un couchsurfer ai tempi, quando ancora non avevo neppure la minima idea che
sarei andato in quell’infinita città sulla costa della California, enorme ed
estesa come una macchia di carburante nel mare fuoriuscita da una petroliera affondata,
quindi molto prima che i miei discorsi andassero a intrecciarsi con quelli di
un ragazzo romano, appena trasferito laggiù dove un tempo si cercava l’oro.
Ero
già un animale da divano paragonabile a un cane che si posiziona esattamente
dove qualcuno gli dice di stare, che come un animale quando ha sonno si
rannicchia il più possibile per non dare fastidio a nessuno.
Già ai tempi mi sdebitavo lavando i piatti come se fossi a casa mia, non sapendo quanto tra i couchsurfers che avrei conosciuto in seguito fosse una pratica comune.
Conoscere
quella persona, in quel contesto così falsamente di buon umore e
rendermi conto che aveva ripescato qualcosa dal mio subconscio, cui non avevo
mai dato troppa importanza, fu come vedere un insegnante che indirizza sulla via
giusta un cantante che ha già qualità ma non ha nessun metodo, senza assillarlo di
didattica ma ricordandogli di tanto in tanto che lui quelle qualità già le possiede ma le invalida.
Andare
a quella festa la settimana successiva a quella chiacchierata e di conseguenza
iscrivermi a quella community che ai tempi contava già qualche milione di
utenti fu per me come dare forma e sostanza a un’idea che avevo già chiara
nella mente ma non sapevo come esprimere.
Da
quel momento cambiò tutto per me. La visione del mondo, la fiducia
nelle persone e di conseguenza la responsabilità forte che ha qualcuno, quando
viene messo nelle migliori condizioni possibili da un estraneo che non lo
conosce e che non gli chiede nulla in cambio.
In
realtà qualcosa gli chiede in cambio: non trattandosi di soldi o di cose
tangibili può essere solo un po’ di umanità e di fratellanza. Cose di cui di
questi tempi il mondo ha davvero bisogno più dell’aria che si respira.
CONTINUA
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