ECUADOR, La mia casa è il Mondo
E' finalmente arrivato il momento di ripartire.
Dopo un mese e mezzo di Quito, si ritorna a mettere sulle spalle lo zaino da globetrotter, con dentro sempre più solamente l'essenziale. Direzione Sud, destinazione Cuenca, la città che già mi han detto essere la Bologna Latina.
Fermarsi a Quito per così tanto (rispetto ovviamente alle altre fermate) mi ha dato molto.
Quell'inevitabile necessità di prendere fiato e rifocillarsi e il richiamo del corpo che prima dell'anima ha stabilito che era meglio rifiatare perché la benzina stava scarseggiando.
Questa fase 2 del viaggio verso Sud sarà inevitabilmente diversa dalla prima e mi permetterà di porre piccole radici nelle varie tappe successive, che avranno per forza di cose tempi più dilatati.
Uscendo dai propri confini infatti, a volte si può avere la concreta sensazione di sentire l'aria di casa tipica del luogo d'origine.
Si può guardare il mappamondo dopo mesi e mesi di spostamenti e sentire di avere tante case e una famiglia di 7 miliardi di persone sparsa in giro per il mondo. Questo attenua parecchio la nostalgia che si prova per la prima casa, quella dalla quale si proviene, che acquisirà l'importanza che può avere il primo amore per una persona già in là con gli anni.
Alla fine che cos'è la nazionalità, se non l'ennesima etichetta posta insieme ai vari ruoli (giornalista, artista, presidente, impiegato, disoccupato) che finiscono per limitare la potenzialità di un essere umano?
Il senso di appartenenza a una nazione può essere paragonato al legame che intercorre tra una persona e la sua famiglia genetica. Questo fa si che, molto spesso, il senso di colpa che salta fuori quando si pensa a un allontanamento abbia la meglio sulla naturale necessità di costruirsi un cammino che porti lontano da dove si è nati.
C'è chi sceglie di vivere tutta una vita nello stesso giardino nel quale è nato e merita tutto il rispetto, come lo merita chi, spostandosi di continuo, inizia a porre radici in più luoghi differenti.
Andare via da una nazione che è in crisi profonda sotto molti punti di vista può essere visto a volte come un tentativo di fuga.
Anche nel caso in cui lo fosse non è in nessun modo condannabile.
Ci sono gli eroi.
In molti casi sono persone che si convincono di esserlo, poche lo sono davvero. E sono quelli che combattono la peste in un lazzaretto riuscendo a non contrarre loro stessi la malattia.
Poi ci sono gli anti-eroi.
Loro non chiedono niente di più che vivere felici, accettando il sole in faccia così come il buio del novilunio. Loro mettono il bene davanti a tutto, la condivisione di un momento, l'energia scatenante del senso di comunità globale, la felicità come priorità e finiscono per allontanarsi inevitabilmente da un luogo dove a parer loro il livello di felicità è pericolosamente basso.
Solo quando svilupperanno gli anticorpi potranno tornare a combattere un sistema marcio dal di dentro senza diventare marci anche loro.
Semmai lo vorranno.
Non sono eroi.
Nessuno può pretendere che lo diventino.
Essere forti significa anche accettare le proprie debolezze, non far finta che esse non esistano.
Diventerà molto più logico per loro alzare gli occhi e guardare il loro primo amore per quello che è in realtà: un puntino su una mappa che diventerà semplicemente una delle tante case e radici che si sono piantate viaggiando.
Che cos'è il mondo alla fine se non una sola grande casa con vista sulla Luna...?
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