ECUADOR, Stare Fermi
Raggiunto il Perù come obiettivo di questa fase dell'avventura, la strada da percorrere per me è stata quella che mi ha portato a risalire la corrente e tornare in Ecuador. Dopo una breve sosta a Montanita e qualche giorno passato a Esmeraldas, la bussola ha indicato la strada verso la capitale Quito. L'adattamento all'altura ha contribuito in maniera naturale al mio rallentamento, permettendomi di godere dell'altra faccia della medaglia, quella rappresentata da un buon libro sotto un albero in un parco pieno di vita e di sport, situato nel pieno centro di una megalopoli.
Ci saranno altre occasioni per parlare di una delle capitali più alte del mondo (anche troppo alta, se non altro per il mio organismo). Per ora vorrei soffermarmi sull'innata bellezza dello stare fermi, soprattutto quando è una condizione raggiunta dopo mesi di movimento, e che quindi si può apprezzare per quello che è realmente in quanto libera da coercizioni esterne.
Quando si sta fermi tutto appare inevitabilmente più chiaro. I colori, gli odori e i suoni intorno acquisiscono una forma concreta che quando si è in piena velocità si riesce solo a intravedere.
Tempo fa, una persona che stimo parecchio mi ha detto che senza alberi che insediano radici nel terreno sarebbe impossibile per chi è in movimento poter rifiatare sotto di essi fino a quando è necessario.
Quando si sta fermi si ha un campo visivo relativamente limitato, si ha sotto controllo solo quello che si raggiunge a occhio nudo mentre il resto può essere soltanto immaginato.
Stare fermi a volte è una scelta, a volte una mancanza di coraggio, a volte una coercizione, a volte un corpo che ha bisogno di rallentare a fronte di un'anima che vorrebbe continuare a correre.
Diverso è il discorso quando ci si costringe all'immobilità. In questo caso ogni singolo passo può sembrare come liberarsi in volo, fino a quando il terreno che sparisce sotto i piedi inizia a mancare e si inizia a guardare solo in basso avendo paura di cadere, invece di alzare gli occhi verso l'ignoto.
E' per questo che la stabilità di una persona perennemente in movimento è solo l'intervallo tra un atto e l'altro. Serve per rifiatare, per scegliere di apprezzare qualcuno guardandolo da una sola angolatura, per aprire una parentesi e sentirsi almeno per qualche tempo parte di qualcosa che non sia il tutto che ci circonda.
Quando questi qualcosa o qualcuno avranno esaurito le loro batterie si ritornerà a scaldare i motori e a ripartire, consapevoli che è inevitabile creare un vuoto tra sè e quello che si lascia, un vuoto a volte molto più grande della distanza cosmica che separa due corpi. Lo si dovrebbe fare senza lottare particolarmente, accettando come inevitabile la differenza tra un contadino e un pescatore.
Non senza sofferenze però, ogni volta che avviene questo inevitabile allontanamento; la sofferenza quando ci si allontana da qualcuno a volte rappresenta la misura di quanto ci si sentiva bene con questo qualcuno vicino. Questo non significa però dover lottare per un riavvicinamento che avrebbe solo il sapore inconfondibile dello sforzo a voler alterare un equilibrio per puro egoismo.
Un volatile non lotterebbe mai per andare a porsi in una gabbietta di metallo sacrificando il volo, almeno non quanto chi si invaghisce della sua libertà lotterebbe per farlo entrare in quella gabbia, raramente rendendosi conto di quanto lui voglia tornare a volare e di quanto vorrebbe, allo stesso tempo, che colui che lo desidera rinchiuso staccasse i piedi dalla pesantezza del terreno per iniziare a volare al suo fianco.
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